11 novembre 2016

Ruggero da Flor


di Enzo Valentini

Nei circa duecento anni di storia dell’Ordine del Tempio, numerose sono le figure che emergono per valore, morale o militare, oppure risaltano per la loro incapacità o mancanza di carattere. Difficile da definire, invece, è quella di Ruggero da Flor.

I detrattori non esitano a definirlo un avventuriero, uomo senza scrupoli, che con le sue azioni ha gettato discredito sull’intero Ordine, avvalorando così le accuse di avarizia e cupidigia formulate contro i Templari. C’è, però, chi vede in lui il vero spirito guerriero che aveva sempre contraddistinto il Tempio e che, negli ultimi anni si era andato sempre più affievolendo; quello stesso spirito che aveva sostenuto Ramon Saguardia, il precettore del Mas Deu, nel Rossiglione, contro le armate del re di Aragona. Il suo luogotenente e compagno d’avventure, il catalano Ramon Muntaner, ha raccontato nella “Cronaca catalana” la vita di Ruggero da Flor, tracciando il ritratto di un uomo di grande coraggio e di indole generosa, pronto a dividere i suoi guadagni con i compagni ed a pagare anticipatamente i suoi soldati. Ruggero nacque da una nobildonna di Brindisi e da un mastro falconiere di Federico II, che perse la vita nel 1268 durante la battaglia di Tagliacozzo. Come scrive Muntaner, «quando il piccolo Ruggero aveva circa otto anni accadde che un gentiluomo, frate converso dell’Ordine templare, chiamato frate Vassayl, nativo di Marsiglia, comandante di una nave del Tempio e buon marinaio, venne a passare l’inverno a Brindisi per stivare la propria nave e farla riarmare in Puglia».

Vassayl ebbe modo di conoscere Ruggero che abitava vicino al porto con la sua famiglia, caduta in disgrazia dopo la morte del falconiere. Fu così che, in deroga a quanto prescritto dalla Regola, chiese alla madre che gli affidasse il figlio per farlo entrare nell’Ordine del Tempio: la povertà familiare e la serietà del frate spinsero la nobildonna ad accettare la proposta, segnando per Ruggero la strada della sua fortuna e, quindi, della sua disgrazia. L’intelligenza, la buona volontà, e la grande capacità di apprendimento fecero del giovane un ottimo marinaio: a quindici anni era il migliore dei mozzi della flotta templare ed a venti, divenuto frate sergente, veniva considerato il più profondo conoscitore della marineria di quei tempi; per questo motivo gli venne affidato il comando della più bella e più moderna nave templare, il Falco o Falcone del Tempio. Fu con questa nave che si trovò a San Giovanni d’Acri nel 1291, all’epoca dell’assedio e della conseguente caduta della città. Durante l’evacuazione della popolazione civile, Ruggero si adoperò per trasportare, come racconta il suo biografo, «donne e ragazze, con grandi tesori, e molte persone per bene; le portò a Mont-Pélerin, e con tale viaggio realizzò enormi guadagni». Ruggero poi versò tutto il denaro ricavato nelle casse del Tempio ma i suoi nemici lo denunciarono presso il gran maestro, accusandolo di aver trattenuto per sé una grande parte di quanto incassato. Per sfuggire a Jacques de Molay, che voleva catturarlo, Ruggero portò il Falcone del Tempio a Marsiglia, per disarmarlo, quindi fuggì a Genova dove alcuni amici gli prestarono il denaro sufficiente per allestire una galera, l’Olivetta. Con questa nave Ruggero si recò a Messina per mettersi al servizio degli Aragonesi, acerrimi nemici di quegli Angioini che, combattendo Corradino a Tagliacozzo, avevano in qualche modo causato la morte del padre. Muore così il templare e nasce il pirata; non muore però la voglia di combattere una guerra giusta, anche se dietro pagamento.

Ruggero iniziò così un lungo periodo di pirateria nel Mediterraneo, durante il quale non mancarono da azioni navali di grande importanza, come la liberazione di Messina assediata dalla flotta angioina di Ruggero Lauria. La Guerra del Vespro, però terminò nel 1302, con la pace di Caltabellotta, con la quale gli Angioini e gli Aragonesi si divisero l’ex regno svevo: ai primi andò Napoli e l’Italia meridionale, ai secondi rimase la Sicilia. Un nuovo signore da servire fu trovato nell’imperatore Andronico II Paleologo, in guerra contro i Turchi; Ruggero tornava così a combattere gli infedeli, come ai vecchi tempi. Memore delle esperienze militari del Tempio, organizzò un suo esercito personale, fedele, ben pagato, disciplinato e soprattutto altamente addestrato.

Nasceva così la prima compagnia di ventura, la Compagnia Catalana, formata da soldati della Linguadoca, di Navarra, di Castiglia, di Aragona e Catalogna, questi ultimi meglio conosciuti come “almogaveri”. Un altro cronista catalano dell’epoca, Bernat Desclot, così li descriveva: «Sono uomini che vivono di venture guerresche, fuor dell’abitato, sempre pei monti e pei boschi; battonsi dì e notte coi Saraceni, s’addentrano arditi per le loro terre una o due giornate, bottinando e strappando loro schiavi e robe e quanto possono avere, così campano; menano vita aspra e tanto dura che altri uomini non potriano soffrire, passando talvolta due giorni senza mangiare, se faccia d’uopo, e cibandosi di erbe selvatiche senza averne molestia. E gli “adalili” (le guide), che sono loro condottieri, sono pratici dei paesi e dei sentieri. Vestono soltanto un giubbone o una camicia, sia state, sia verno; alle gambe cingono calzari di cuoio strettissimi, uose di cuoio al piede; ed hanno buona lama pendente, forte cintura stretta alla vita. E hanno tutti una lancia e due giavellotti e uno zaino di cuoio dove serbano il cibo; sono poi fortissimi e assai spediti a correre e inquietare il nemico». La Compagnia Catalana iniziò subito con una azione poco valorosa, ossia con il massacro dei Genovesi di Costantinopoli, cosa che però fece grande piacere all’imperatore, stanco della loro egemonia commerciale; i mercenari passarono poi in Asia Minore per combattere contro i Selgiuchidi, che vennero sconfitti ad Aulax; a questa prima vittoria ne seguirono altre, inframmezzate da scorrerie ed incursioni, successi che alzarono sempre più le quotazioni di Ruggero: nominato inizialmente “megaduca” dell’impero, divenne in seguito “cesare”, titolo di competenza imperiale, fino ad arrivare a sposare Maria, principessa dei Bulgari e nipote dello stesso imperatore.

Ma questa fortuna, troppa ed improvvisa, in una corte così corrotta ed infida come quella bizantina, fece nascere gelosia ed invidia, specialmente in Michele Paleologo, figlio dell’imperatore. Il principe ereditario, temendo per la sua successione al trono e stanco dello strapotere di Ruggero, lo invitò ad un banchetto organizzato ad Adrianopoli: durante il festino Giorgio, guardia personale di Michele, prese alle spalle Ruggero e lo colpì ripetutamente a morte. Era il 1305.

Moriva così, per tradimento, un uomo discusso e discutibile, un uomo che aveva servito fedelmente l’ideale del Tempio e da questo (o dai suoi uomini) era stato tradito, un uomo che, addestrato a combattere, aveva fatto del combattimento la sua ragione di vita ma, trasformato il suo ideale nella ricerca del potere, ne aveva anche subito la naturale conseguenza.